Oggi che non si studia più il Catechismo di S. Pio X, questo termine non ci è più molto familiare. In latino, il termine novus significa ultimo. Novissimus è lo stesso termine al superlativo, ultimissimo.

Quando si parla dei Novissimi si intende, dunque, parlare delle cose ultime della nostra vita – nel senso di definitive – quelle realtà corporali e spirituali che si prospettano per noi a conclusione del nostro percorso terreno.

Novissimi sono classicamente quattro nel catechismo: Morte, Giudizio, Inferno, Paradiso. Ma ci sembra opportuno, in questa sede, aggiungere anche una riflessione sul Purgatorio e sulla Risurrezione dei Corpi, per completare il quadro delle realtà che ci attendono oltre questa vita.[…]

Oggi più che mai la cosa maggiormente necessaria a questo mondo è parlare dell’Altro. Il peggior inganno della modernità è quello, infatti, di farci pensare che tutto inizi e finisca quaggiù, che siamo già approdati nel paese delle meraviglie, fatto di prodigi scientifici e cullato da tante illusioni, allontanando da noi il pensiero che invece passa la scena di questo mondo (1Cor 7,31).

Che ci faccia piacere o meno, passerà anche questa nostra vita.

Una verità di cui tanto volentieri ci scordiamo.

Qualcuno è morto? Le uniche speranze sono che abbia sofferto il meno possibile e che fosse vecchio. Non si coglie più un minimo interesse circa la preparazione spirituale alla morte: ci si prepara ancora a morire, al di là di quanto siamo vecchi? Si prepara la coscienza all’incontro con Dio? Preoccupatissimi, anche giustamente, a mantenere la salute fisica quaggiù, ma non altrettanto preoccupati per la salute dell’anima in vista della nostra partenza da questo mondo, di cui ignoriamo il giorno.

Si muore. Muoiono sempre gli altri. E la vita va avanti. Ma è proprio questa frase a rivelarci che la vita è in cammino verso una meta. Questo è il punto: dove siamo diretti?

Non abbiamo una città stabile in questo mondo (Eb 13,14). Siamo tutti in cammino verso un’altra città, verso la Patria dei Cieli.

Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano (1Cor 2,9).

È molto utile, allora, darsi da fare durante questa vita per conoscere e portare il pensiero a quelle realtà che ci attendono oltre questo nostro mondo visibile.

Anzi, visto che parliamo della vita eterna, è probabilmente la cosa più interessante da fare. Per questo mi pare necessario che, oltre all’attuale e morboso interesse per le riviste di gossip, spettacolo e cronaca mondana, le quali oggi sono attualità e domani avranno il compito – pur nobile – di foderare i cestini della pattumiera, l’interesse degli uomini e delle donne si rivolga anche, ogni tanto, alla lettura di un buon libro che abbia invece il compito di prepararli alla vita eterna.

Chi non sale spesso in Cielo col pensiero mentre è in vita,

corre grandemente il pericolo di non salirvi

neanche dopo la morte. 

(San Filippo Neri)

MORTE

[…]

… Quando ti capita di vedere molto da vicino la morte e di assaporarne il dramma, ti si aprono gli occhi sulla realtà e ti rendi conto che non c’è un’età per morire, anche se fino ad allora pensavi che toccasse solo ai vecchi e per te fosse una cosa molto lontana.

Questa vita, che nei tempi di prosperità sembra quanto di più vigoroso e indistruttibile, improvvisamente la senti fragile e precaria.

Un serio problema

In faccia alla morte, l’enigma della condizione umana diventa sommo“. Cioè il problema è serio. Davanti al pensiero della morte si apre il grande problema del senso della vita.

Se devo morire, qual è il senso della mia vita presente? Il senso delle cose che faccio e di tutto quello che sto costruendo? Riflettere sulla morte non è dunque lo sport preferito dell’uomo pessimista che pensa alle cose tristi della vita, ma, al contrario, è un’attività filosofica e teologica dell’uomo intelligente e sapiente che, davanti a ciò che lo attende come ultimo e inevitabile appuntamento, cerca di capire il senso e il fine della sua stessa esistenza, presente e futura. Attraverso la morte avremo accesso definitivamente alle “cose dell’altro mondo”, entreremo in una nuova dimensione di vita.

È dunque doveroso conoscere quanto si può sapere circa le cose che ci attendono. È molto diverso, infatti, vivere e morire sapendo o non sapendo cosa si prospetta dopo l’ultimo respiro.

C’è ovviamente una grande resistenza che noi stessi opponiamo al pensiero della morte, nessuno ci pensa in un modo tranquillo e senza timore, non stiamo parlando di una realtà allettante. Però, proprio per questo, dobbiamo prepararci ad affrontarla con dignità, con la consapevolezza tipica dell’uomo che, a differenza dell’animale, non subisce semplicemente le cose, ma può dar loro un senso, o meglio, può scoprirne il senso intrinseco.

In più, il cristiano deve anche predisporsi ad affrontarla con santità, ben cosciente dell’importanza di quel passaggio.

La maggior parte degli uomini, fra i quali forse ci siamo anche noi, preferisce vivere e non pensarci, non parlarne mai. Porta male. È argomento di disagio. È indelicato e inopportuno in qualsiasi ambiente.

D’altra parte, la psicologia ci ha ormai convinti che reprimere un problema è sempre dannoso, reprimere le cose scomode o problematiche della vita è sempre il modo peggiore per affrontarle.

Eppure, tale principio, per affermare il quale si sono fatte battaglie da decenni in campi come la sessualità, è lo stesso principio che si nega altrettanto energicamente al pensiero della morte: questo concetto, a differenza di tutti gli altri, per la cultura dominante è da reprimere, perché rovina tutti i pensieri di una vita sana, giovane ed eterna di cui vogliamo illuderci quaggiù.

È meglio che non ci si pensi e non se ne parli, mai.

Eppure, era addirittura uno dei padri della psicanalisi, Carl Gustav Jung, ad asserire che: “Un uomo che non si ponga il problema della morte e non ne avverta il dramma, ha urgente bisogno di essere curato“.

Non sono mancati, anche tra i filosofi, tentativi di togliere il senso della paura al pensiero della morte. Sforzi lontani, a partire dal celebre Epicuro, che teorizzò semplicemente la non esistenza del nostro rapporto con la morte; ma queste teorie mettono comunque in risalto una cosa vera, cioè il reale disagio che l’uomo prova davanti alla morte.

La morte non è per noi nulla di naturale, né come avvenimento né come considerazione di un evento che abbia un posto logico nella nostra esistenza.

Naturale per noi è il contrario della morte: il desiderio della vita, l’istinto della nostra conservazione. Allora ha un’idea formidabile: il male che più ci spaventa, la morte, non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c’è lei, e quando c’è lei non ci siamo più noi. Noi e la morte praticamente non ci incontreremo mai. Espediente geniale quanto tautologico e retorico, perché “quando io non ci sarò” sarà solo perché in realtà ho incontrato proprio la morte.

Tra biologia e teologia

La morte è la fase più drammatica della vita dell’uomo, rappresenta la separazione di quanto è stato costituito in unità inscindibile in noi, anima e corpo. La morte è la disgregazione di noi stessi.

L’anima, nostro principio vitale e divino, non rimane per sempre nel corpo, il quale, come possiamo tutti sperimentare, è soggetto al deterioramento temporale.

Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti, ma quasi tutti sono fatica e dolore, passano presto e noi ci dileguiamo. Insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore (Sal 89,10.12)

È la stessa Sacra Scrittura che ci incoraggia a riflettere sulla morte, essa insegna che la sua considerazione fa diventare saggi nella vita: quando uno riflette sul fatto che i suoi giorni sono contati, giunge alla “sapienza del cuore”, comprende cioè le cose essenziali della sua vita, quelle che sono da perseguire, e le distingue da quelle effimere e devianti, da ciò che è solo illusione; si preoccuperà di cominciare a conoscere se stesso, il senso della sua vita, e, ancor più, di conoscere e amare Dio, il cui incontro sa essere certo e ogni giorno più vicino.

Generalmente, la riflessione su una cosa tanto sgradevole come la morte inizia con un perché.

Siamo così assetati di vita, perché la morte? Che senso ha, chi l’ha inventata? Dio?

La prima cosa su cui il credente rimane disorientato davanti alla morte è, infatti, la figura di Dio. È la fatica più grande di tutte immaginare la bontà di un Dio che prima crea la vita, ne fa gustare a tutti gli esseri la bellezza, per poi farla finire nella morte. Si ha quasi l’impressione di essere davanti ad un dio schizofrenico: prima buono, creatore di una vita ricca e promettente e poi insensibile distruttore di ciò che egli stesso ha creato.

La cosa diventa davvero drammatica per il non credente, il quale, pensando che tutto si svolga nella concretezza vana e inconcludente di questo mondo visibile, non riesce a sottrarsi all’assurdo, perché per quante aspirazioni abbia il suo cuore, saranno tutte destinate a essere frustrate e beffate dalla morte, nessuno gli garantirà il benessere e l’immortalità su questa terra.

Tuttavia la morte è la dura prova anche per chi, al contrario, ha conosciuto, amato e servito Dio quaggiù: è il momento dell’abbandono totale di noi stessi, il momento in cui, come mai abbiamo fatto in vita, siamo chiamati a compiere l’atto di fiducia più cieca e totale nella bontà Dio. Davanti alla morte puoi solo fidarti ciecamente, non puoi sperimentare null’altro che la pura fede: Dio è l’unico che potrebbe liberarti dalla morte, lo fa tante volte durante la tua vita, ma arriverà un giorno in cui non lo farà più.

Il problema della morte è immediatamente affrontato già dalle prime pagine del libro della Genesi: “Tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai!” (Gen 3,19).

È la sentenza di morte che Dio rivolge all’uomo che ha assaporato il peccato, che ha consumato quell’esperienza di voler vivere vedendo in Dio un limite alla vita, piuttosto che l’origine.

Questa condanna, tra l’altro, ha lo scopo di richiamare l’uomo che aveva voluto sognare di essere come Dio, alla sua realtà più concreta: non sei Dio, anzi, sei polvere, e prima o poi polvere tornerai ad essere.

La morte appare certamente come la perdita più evidente di quelle prerogative di grazia che Dio aveva voluto offrire alla sua creatura prediletta. Ma, insieme alla punizione, Dio richiama l’uomo semplicemente alla sua verità naturale, a ciò che sarebbe senza Dio, svegliandolo dall’illusione di arrivare ad essere come il Creatore cedendo così al peccato.

Nel racconto della Genesi Dio non aveva forse tratto l’uomo dalla terra? Così, se ci pensiamo bene, quella di Dio non è una sentenza tanto sorprendente, è solo un far memoria all’uomo della sua realtà di creatura, non di creatore: la vita e l’immortalità non gli appartenevano per natura, ma erano frutto della grazia, dell’amicizia, della comunione con Dio.

L’uomo, una volta accolto il sospetto e assaporato il peccato, allontanandosi da Dio, riesce a vedere le cose in modo diverso da prima. Quella di essere una creatura era un’evidenza che non gli aveva mai fatto problema: dopo il peccato la sperimenta come un fallimento, si mette in competizione con Dio. Il peccato ha l’effetto straordinario di stravolgere la realtà, di far vedere le cose con occhi non più innocenti, ma di sospetto, soprattutto verso Dio. E questa è un’esperienza che tutti facciamo nella vita, non serve tanta fede per crederci.

Pensiamo a quante volte questa dinamica si riproduce: quante volte il sospetto, spesso gratuito, si insinua nei nostri rapporti inquinandoli, in un’amicizia, in una famiglia, tra fratelli, sul lavoro, nelle comunità, nella Chiesa, nel nostro rapporto con Dio… e ogni qualvolta lo accogliamo e lo coviamo nel cuore ci fa sperimentare una morte dei rapporti, un fallimento.

Il sospetto è quel veleno che abbiamo ereditato a causa del peccato d’origine e che continuamente ci inoculiamo grazie al nostro peccato personale.

Viene lecito a questo punto farsi una domanda: ma senza il peccato, la morte ci sarebbe stata lo stesso? L’immortalità è uno dei capitoli più difficili e controversi nella teologia: che ci sia un legame tra il peccato e la morte è un punto fermo della Bibbia, ma bisognerebbe comprendere il senso specifico di tale morte, nel senso di realtà corporea o meno. Biblicamente non si parla mai, infatti, solo di aspetto fisico della morte, essa è una realtà molto più ampia della fisicità, la valenza è soprattutto teologica.

Oggi c’è un’osservazione che quasi tutti i teologi fanno, ovvero la distinzione tra morte teologica, biologica e psicologica:

– la morte teologica è la profonda rottura del rapporto di comunione con Dio;

– la morte biologica è la morte organica;

– la morte psicologica è la difficoltà di integrare la morte nel proprio progetto di vita.

Quale la Bibbia intende realmente presentare? La stessa esperienza della morte è ambigua: da una parte è considerata naturale dall’uomo, ovvia, come tutte le cose del creato che con i nostri occhi vediamo apparire, crescere, scomparire; d’altra parte non possiamo negare che non la viviamo con tutta questa naturalezza, anzi viene drammaticamente sentita come un castigo, c’è dentro una ribellione che getta un sospetto terribile su Dio, sulla sua esistenza, sulla sua bontà e su noi stessi, sulla nostra vita, sul senso di tanta fatica sotto il sole.

Possiamo dunque concepire la morte come un fenomeno “naturale”? Se poniamo la domanda sotto l’aspetto della biologia, certamente sì: la morte e la disgregazione sono la fine normale di ogni essere vivente.

Tu sei polvere: abbiamo visto che Dio stesso ricorda all’uomo questa sua innegabile verità.

La sorte degli uomini e quella delle bestie è la stessa, come muoiono queste muoiono quelli; c’è un solo soffio vitale per tutti. Non esiste superiorità dell’uomo rispetto alle bestie” (Qo 3,19).

Eppure, la Sacra Scrittura non ha dubbi nell’asserire, allo stesso tempo, che la morte, così come noi la sperimentiamo – perché, alla fine, è inutile interrogarci su una situazione ipotetica di vita, diversa dalla nostra – è una chiara conseguenza del peccato: “La morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo” (Sap 2,24).

Come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato” (Rm 5,12).

Dunque la morte è una realtà naturale, ma allo stesso tempo sentita come innaturale; un evento fisiologico, ma allo stesso tempo avvertito come un dramma, una condanna, un’inaccettabile realtà.

A questa visione, fatta di ambiguità, manca dunque un terzo passaggio, risolutore, senza il quale tutto rimane incomprensibile.

Dio non gode della rovina dei viventi

Un libro biblico del I sec. a.C., il Libro della Sapienza, ci introduce a comprendere questa terza fase, perché è il primo testo ad affermare esplicitamente che la morte, intesa come fine di tutto, non è mai stata per nulla nelle intenzioni di Dio:

Non provocate la morte con gli errori della vostra vita, non attiratevi la rovina con le opere delle vostre mani, perché Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. Egli infatti ha creato tutto per l’esistenza; le creature del mondo sono sane, in esse non c’è veleno di morte, né gli inferi regnano sulla terra (Sap 1,12-14).

Il Libro della Sapienza ci assicura che Dio non gode affatto della rovina dei viventi. Anzi, ancor di più, afferma che Dio non ha creato la morte, ma ha creato tutto per l’esistenza.

C’è dunque un fatto certo che ci aiuta a comprendere lo stato effettivo delle cose: Dio è la Vita, per cui tutto ciò che appartiene a Dio appartiene alla vita. Certamente Dio non conosce morte, non può creare la morte chi è vita diffusiva, né tutto ciò che ha creato per la comunione con Lui conosce morte, in senso reale.

Noi abbiamo una visione molto limitata della vita. Secondo la nostra piccola esperienza di creature siamo, infatti, vincolati dagli anni, dalla giovinezza, dall’età adulta, dalla vecchiaia e quindi dalla fine della vita fisica. Tutta la nostra esistenza si snoda in vincoli temporali.

Ma tutto questo non c’è in Dio. Dal punto di vista del Creatore la vita è qualcosa di infinito e, mentre noi vediamo la morte con terrore e come un ostacolo grande alla vita, Egli, che vive al di là del tempo, la vede solo come una delle nostre fasi esistenziali, un passaggio non ad un’età successiva (come le età che si succedono nella nostra vita temporale) ma ad un nuovo livello di vita, un livello qualitativamente e assolutamente migliore, perché senza i limiti del tempo e dello spazio, senza l’esperienza del decadimento temporale. Finita questa vita, si passa, attraverso la morte di ciò che è temporale, alla dimensione di vita di Dio, che è l’eternità.

È ovvio, però, che, non essendo noi per nulla Dio, quindi né creatori, né esistenti dall’eternità, e in più – come abbiamo visto – meritevoli della condanna di Dio a causa del nostro peccato, questa condizione non ci è connaturale. Noi siamo pensati e creati, chiamati alla vita e tenuti in vita da Qualcun’altro. Noi non siamo il principio stesso della nostra vita. Per questo abbiamo avuto bisogno di qualcuno che ci riscattasse dalla nostra condizione naturale.

Qualcuno che ci strappasse dalla condizione di morte tipica delle creature, per portarci su un altro piano di vita.

Ed ecco il terzo passaggio. Qui entra in gioco la grazia di Dio che ci chiama e ci eleva a vivere uno stato di vita che, di per sé, non è il nostro, è pura gratuità, è puro amore di Colui che vuole associarci alla sua vita divina: tutto questo si chiama redenzioneriscatto dal peccato, dal male e dalla morte per poter vivere nella vita di Dio.

L’opera mirabile di Dio che, in Gesù Cristo suo Figlio, ha voluto fare di tutti noi suoi figli.

Poiché dunque i figli hanno in comune il sangue e la carne, anch’egli ne è divenuto partecipe, per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo e liberare così quelli che per timore della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita (Eb 2,14-15).

Dio, la Vita stessa, è entrato in un modo reale e indissolubile nella carne dell’uomo, associandolo a Lui, aprendogli la via alla vita eterna!

Dio, in Gesù Cristo, ci ha fatto conoscere che da sempre ha pensato di riscattare la sua creatura dalla condizione di morte che, per più motivi, le era propria: dunque dovremo concludere che non solo Dio non ci ha creati per la morte, ma, al contrario, ci ha strappati alla morte, salario del peccato (Rm 6,23), perché non restassimo in suo potere, perché la nostra vita non cadesse nel nulla, ma fosse unita per sempre alla Sua.

Dio ha riscattato e redento tutto di noi, tutto di noi ha voluto recuperare per la comunione con Lui.

La visione cristiana della vittoria sulla morte è molto più logica e interessante della visione epicurea. Innanzitutto perché è vera, non è frutto cioè di una speculazione filosofica, ma di un evento storico ben preciso e della potenza di una Persona, Gesù Cristo, il Figlio di Dio, l’Inviato del Padre, l’Unico che ha potuto dire di Se stesso: “Io sono la Risurrezione e la Vita; chi crede in Me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in Me, non morrà in eterno” (Gv 11,25-26).

Qui non si tratta più di evitare la morte, cosa che di fatto non avviene per nulla. Non è avvenuta neanche per Gesù, perché ovviamente evitare la morte non sarebbe stata per Lui una vittoria, ma semplicemente un sottrarsi all’avversario, che invece ha voluto affrontare e vincere.

(Tratto da “Cose dell’altro mondo: I Novissimi e dintorni” di Padre Rocco Camillò – Ed. Fede & Cultura – 2011 pag. 112)

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